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Fiona May allo Sport Business Forum: “Dobbiamo dare ai giovani la possibilità di studiare e allenarsi assieme, la carriera degli atleti non è infinita”

BELLUNO. “Da piccola facevo danza, poi una professoressa mi disse che avevo talento per l’atletica. Perciò a 11 anni mio padre mi portò in pista e feci un provino per correre i 400 metri: ero brava, ma all’epoca serviva un anno in più per proseguire. Fui delusa e continuai con la danza, ma un anno dopo sono tornata. Ero già molto allenata, facevo tanti sport ma la prima passione rimaneva l’atletica leggera e da allora sono arrivata qui”. Parte così la carriera di Fiona May, ospite alla prima serata bellunese dello Sport Business Forum, dove racconta quei momenti della sua vita che tutti abbiamo conosciuto, ma soprattutto la fatica che c’è dietro, quello che noi non vediamo.

I salti in lungo di Fiona sono stati tanti: la scelta dell’atletica sulla danza, l’arrivo in Italia e la decisione, difficile, di cambiare Paese con cui gareggiare. “In Inghilterra ero la numero 1 lì da quando avevo 17 anni, poi ho conosciuto l’Italia e mi piaceva come si allenavano. Dopo le Olimpiadi di Barcellona – racconta – sono stata qui per 6 settimane, ho incontrato Giovanni Tucciarone e ho deciso di rimanere. Perciò ne parlai con la federazione inglese, che mi diede 500 sterline per un anno: non mi bastavano di certo e ci rimasi male, perché avevo fatto quella scelta per diventare più forte. Al che Giovanni mi propose di diventare italiana e, dopo non aver dormito per un mese, ho preso la decisione. Mi colpirono soprattutto le parole di mio padre, che disse “se fallisci, avrai sempre una casa per tornare. Ma io ti difenderò se qualcuno dirà che hai fallito, perché tu hai coraggio”. Quando poi ho vinto il Mondiale nel 1995, mia madre massacrò tutti ripetendo che io avevo vinto con l’Italia, mentre loro non avevano nessun atleta”.

Una carriera culminata in quel 7,11 ancora oggi record italiano (quasi eguagliato dalla figlia Larissa Iapichino), ma per lei non è stato il salto più lungo. “Per me – afferma – non contavano i record, ma i risultati. Speriamo che Larissa batta il record e, se non succede, vuol dire che qualcosa non va: tuttavia sono le medaglie che restano nella storia, nessuno le può cancellare, ed erano quelle il mio obiettivo perché dietro a ognuna c’è un racconto”.

Un racconto di fatica, sudore e impegno, al quale Fiona esorta le nuove generazioni, per lei già “cazzute”. “Le nuove generazioni – prosegue infatti – hanno qualcosa in più: i ragazzi oggi sono fenomenali, bravi, sono proprio cazzuti perché vanno avanti senza paura, e questo è il bello. Dai campionati giovanili, dispongono di un vivaio di gare che permettono loro di crescere continuamente e danno la spinta per essere atleti bravissimi. Inoltre è cresciuto il business dello sport ed è fondamentale investirvi perché lo sport è salute, fisica e mentale. Da un lato, fare sport significa mangiare bene, riposarsi, insomma le solite cose, che però non sono scontate: se vuoi essere il migliore – puntualizza – devi impegnarti. Non mi piace parlare di sacrificio, perché si tratta di una tua scelta: ma devi allenarti, non c’è scampo e il doping non è una scorciatoia. Purtroppo viviamo un momento in cui i giovani vogliono il successo subito, ma non funziona così: se sali in alto subito, poi scendi altrettanto velocemente. Invece crescere poco a poco, migliorare nel tempo, è l’unico modo per arrivare ed è anche un viaggio che ti aiuta a capire chi sei. Un viaggio in cui bisogna usare il cervello: a 17 anni il mio allenatore mi ha insegnato a fare meditazione e visualizzazione ed è stata la mia arma, ancora oggi: nei momenti difficili so come calmarmi e visualizzare l’obiettivo”. 

Oggi Fiona May siede nel Cda di Puma, e non rimpiange di aver lasciato la carriera agonistica. “Ero contenta – racconta – perché era davvero faticoso. Dentro di sé un atleta sa quando è il momento di smettere: io avevo un altro lavoro come attrice in “Butta la luna” nel quale mi sono molto divertita, perciò quella fine era parte della mia vita. Oggi sono in Puma e ho dovuto ricordare quello che avevo imparato con la laurea, che ritengo fondamentale. Le scuole devono infatti dare la possibilità agli sportivi di studiare senza mettere il bastone tra le ruote: i ragazzi possono fare entrambe le cose, si chiama “time management”. Mia figlia Larissa studi giurisprudenza: ha fatto gli esami e due giorni dopo ha saltato 7,06.

Dobbiamo però dare loro la possibilità di studiare, se lo vogliono fare, o di seguire una carriera mentre stanno gareggiando: io ho smesso a 35 anni e ne ho persi 15 a gareggiare, anziché inserirmi nel mondo del lavoro, nel quale per la maggior parte dei miei ex colleghi è difficilissimo rientrare. Bisogna perciò pensarci prima: gli atleti pensano che la loro carriera durerà per sempre ma non è così. Io non ero molto studiosa, sono stata bocciata a 16 anni e pensavo di andare a lavorare al supermercato e concentrarmi sugli allenamenti, ma il mio ex allenatore mi prese per un orecchio e mi rimandò a scuola. Allo stesso modo ho sempre detto alle mie figlie che, se volevano fare sport, dovevano anche studiare e ho lottato con i loro professori sottolineando il fatto che il mio essere campionessa non mi ha impedito di laurearmi e prendere un master: perciò lo possono fare anche loro, ma bisogna dargliene la possibilità”.

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